Glyphosate, questo nemico sconosciuto

[:it]f_15995a8c9cIn tempi in cui si parla del killeraggio del Corpo Forestale dello Stato noi vogliamo, tanto per mettere alcuni puntini sulle i e fare capire l’importanza di questo corpo di specializzazione, raccontarvi dei controlli partiti a maggio ed ancora in corso fino all’autunno sulla sicurezza agroalimentare.
E’ sta presenta alcuni giorni fa a Firenze, nell’indifferenza dei colleghi che si occupano di agroalimentare e che evidentemente intendono la specializzazione solo per andare a mangiare  e bere gratis nelle aziende, il rapporto sulle oltre 100 verifiche effettuate in Toscana sull’utilizzo del Glyphosate, sostanza potenzialmente cancerogena.

La sicurezza agroalimentare ed agroambientale è infatti una delle competenze specifiche di questo Corpo e, solo leggendo capirete che inglobarli nei Carabinieri e quindi depotenziandoli vuol dire dare indirettamente un aiuto alle agromafie e alle sofisticazioni che mettono a rischio la nostra salute e il domani dei nostri figli.

Fatta questa doverosa premessa perché chi scrive è e sarà sempre al fianco del Corpo Forestale passiamo a fatti.
Su 108 controlli effettuati ad oggi fra rivenditori e utilizzatori di fitosanitari per il rispetto delle normative nazionali e comunitarie ben 44 hanno avuto esito irregolare e sono state elevate 72 sanzioni amministrative e 5 penali.
Un dato incredibile che fa capire quando poco la stampa specializzata s’interessi dell’argomento se si pensa che siamo a circa il 50% di irregolarità!

I problemi riguardano soprattutto le etichettature carenti o irregolari, lo stoccaggio e conservazione e lo smaltimento. E’ infatti doveroso sottolineare che per utilizzare i fitofarmaci serve un’autorizzazione ad hoc rilasciata dal Ministero della Salute dopo un severo esame.
Altro grosso buco nero è il non rispetto delle distanze di sicurezza da parchi, giardini, abitazioni, scarpate stradali, impianti sportivi, laghi e fimi.

Il prodotto oggetto di attenzione è il Glyphosate, noto diserbante ad azione sistemica e non selettiva largamente utilizzato in ambiente extra agricolo per il diserbo.
L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro in data 20/03/2015, in base a studi effettuati sull’esposizione al prodotto da parte della popolazione ha dichiarato la probabile cancerogenicità della sostanza e per questo, in virtù del principio europeo di prevenzione, la Toscana ha vietato l’utilizzo del Glyphosate a tutela della salute pubblica.

“Le attività svolte – afferma Giuseppe Vadalà, Comandante Regionale del Corpo Forestale dello Stato – non sono altro che la trasposizione concreta del principio di precauzione dell’Europa tradotto in legge con lungimiranza dalla Toscana. Mi piace sottolineare , in particolare, i controlli eseguiti nei giardini e nelle aree a verde pubblico a tutela della salubrità delle famiglie e dei bambini”.

Le zone maggiormente controllate sono state l’area pistoiese e quella del senese il che fa pensare che l’industria vivaistica e quella vitivinicola hanno tanta strada ancora da fare in questo settore.
Noi continueremo sempre a stare al fianco dei Forestali, perché la salute è spesso nelle loro mani. In quanto ai colleghi di settore crediamo che occuparsi meno di mirabolanti commenti a vini non sempre buoni e recensire come se fossero stellati ristoranti bettole di second’ordine solo perché pagano fa disinformazione specie se si ignora che quel vino o quel piatto possono aver subito contaminazioni da Glyphosate.[:en]f_15995a8c9cIn tempi in cui si parla del killeraggio del Corpo Forestale dello Stato noi vogliamo, tanto per mettere alcuni puntini sulle i e fare capire l’importanza di questo corpo di specializzazione, raccontarvi dei controlli partiti a maggio ed ancora in corso fino all’autunno sulla sicurezza agroalimentare.
E’ sta presenta alcuni giorni fa a Firenze, nell’indifferenza dei colleghi che si occupano di agroalimentare e che evidentemente intendono la specializzazione solo per andare a mangiare  e bere gratis nelle aziende, il rapporto sulle oltre 100 verifiche effettuate in Toscana sull’utilizzo del Glyphosate, sostanza potenzialmente cancerogena.

La sicurezza agroalimentare ed agroambientale è infatti una delle competenze specifiche di questo Corpo e, solo leggendo capirete che inglobarli nei Carabinieri e quindi depotenziandoli vuol dire dare indirettamente un aiuto alle agromafie e alle sofisticazioni che mettono a rischio la nostra salute e il domani dei nostri figli.

Fatta questa doverosa premessa perché chi scrive è e sarà sempre al fianco del Corpo Forestale passiamo a fatti.
Su 108 controlli effettuati ad oggi fra rivenditori e utilizzatori di fitosanitari per il rispetto delle normative nazionali e comunitarie ben 44 hanno avuto esito irregolare e sono state elevate 72 sanzioni amministrative e 5 penali.
Un dato incredibile che fa capire quando poco la stampa specializzata s’interessi dell’argomento se si pensa che siamo a circa il 50% di irregolarità!

I problemi riguardano soprattutto le etichettature carenti o irregolari, lo stoccaggio e conservazione e lo smaltimento. E’ infatti doveroso sottolineare che per utilizzare i fitofarmaci serve un’autorizzazione ad hoc rilasciata dal Ministero della Salute dopo un severo esame.
Altro grosso buco nero è il non rispetto delle distanze di sicurezza da parchi, giardini, abitazioni, scarpate stradali, impianti sportivi, laghi e fimi.

Il prodotto oggetto di attenzione è il Glyphosate, noto diserbante ad azione sistemica e non selettiva largamente utilizzato in ambiente extra agricolo per il diserbo.
L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro in data 20/03/2015, in base a studi effettuati sull’esposizione al prodotto da parte della popolazione ha dichiarato la probabile cancerogenicità della sostanza e per questo, in virtù del principio europeo di prevenzione, la Toscana ha vietato l’utilizzo del Glyphosate a tutela della salute pubblica.

“Le attività svolte – afferma Giuseppe Vadalà, Comandante Regionale del Corpo Forestale dello Stato – non sono altro che la trasposizione concreta del principio di precauzione dell’Europa tradotto in legge con lungimiranza dalla Toscana. Mi piace sottolineare , in particolare, i controlli eseguiti nei giardini e nelle aree a verde pubblico a tutela della salubrità delle famiglie e dei bambini”.

Le zone maggiormente controllate sono state l’area pistoiese e quella del senese il che fa pensare che l’industria vivaistica e quella vitivinicola hanno tanta strada ancora da fare in questo settore.
Noi continueremo sempre a stare al fianco dei Forestali, perché la salute è spesso nelle loro mani. In quanto ai colleghi di settore crediamo che occuparsi meno di mirabolanti commenti a vini non sempre buoni e recensire come se fossero stellati ristoranti bettole di second’ordine solo perché pagano fa disinformazione specie se si ignora che quel vino o quel piatto possono aver subito contaminazioni da Glyphosate.[:]

Toscana: la salute vien mangiando

20160623162916718la redazione – Promuovere la cucina salutare con un occhio rivolto alla solidarietà. Nasce da questo connubio il contest ‘Eubiochef’, promosso da Vetrina Toscana e ANT per stimolare chiunque voglia partecipare, non solo chef ma anche food blogger e semplici appassionati, a presentare ricette ‘eubiotiche’ (dal greco eu-biotikós, che assicura il buon vivere). Ricette che troveranno spazio nei menù dei ristoranti aderenti a Vetrina Toscana.

L’iniziativa è stata presentata dall’assessore al turismo e alle attività produttive Stefano Ciuoffo, dal medico nutrizionista di ANT Enrico Ruggeri e dal delegato ANT per Firenze, Prato e Pistoia Simone Martini.

“Vetrina Toscana – ha detto Ciuoffo – dimostra ancora una volta grande vocazione alle iniziative di solidarietà, legando la buona cucina ed i prodotti di qualità agli effetti che questi hanno sulla salute. La dieta mediterranea è sinonimo di prodotti freschi, di provenienza locale ma anche di attenzione alla qualità e modalità della loro trasformazione. Questo contest è un modo di raccontare cose serie in modo piacevole, che poi è il ruolo che spetta a Vetrina Toscana attraverso la rete dei propri ristoratori”.

Al contest possono partecipare tutti i maggiorenni.
A partire dal 24 giugno e fino al prossimo 30 ottobre si potrà inviare la propria ricetta a vetrina.toscana@regione.toscana.it allegando una foto del piatto e una descrizione della natura salutare della ricetta e della sua relazione con la Toscana. Info e regolamento su Vetrina Toscana e su ANT.

Le ricette pervenute e ritenute idonee saranno pubblicate sul portale di Vetrina Toscana e sulla pagina dedicata di ANT. Gli autori delle migliori 5 (selezionate da apposito comitato tecnico scientifico di Fondazione ANT e Vetrina Toscana) saranno chiamati a raccontarle nel corso della serata finale che si terrà nel mese di novembre ed il cui ricavato sarà interamente devoluto alla Fondazione ANT per la realizzazione di progetti gratuiti di assistenza domiciliare e prevenzione oncologica. Per tutto il mese di novembre i ristoranti di Vetrina Toscana aderenti al progetto faranno assaggiare alcune ricette.

Frutti dimenticati riscoperti e “specialisti” non pervenuti

[:it]Pesca-Regina-Londadi Nadia Fondelli – Ormai è assodato. Lo sanno pure i muri – anche se lo dicono sottovoce per non disturbare la cassaforte dei monopolisti della nostra salute – l’alimentazione base del presente e del futuro è nella verdura e nella frutta.

Da sempre lo dice la nostra cara e vecchia dieta mediterranea ma troppo spesso lo dimentichiamo nella rincorsa a modelli e stili di vita che danneggiano la salute, ma sono tanto comodi.
La legge della comunicazione del resto insegna che la massificazione piace e che parlare di buone regole è argomento fastidioso.

Così è stato per molti anni, gli anni della plastica, del preconfezionato e del fast salvo scoprire poi, quando i buoi sono già scappati dalla stalla, che il rovescio della medaglia c’era. Addio salute.

Facendo due conti si è compreso allora che il costo sociale di cattive politiche è un boomerang assassino. Spendere oggi uno per risparmiare e nutrire i popoli di veleni corrisponde a spendere domani dieci per garantire cure a vite a popoli avvelenati.

Malattie cardiovascolari, metaboliche e neurodegenerative erano sconosciute pochi decenni fa quando sulla tavola la carne scarseggiava, i prodotti lavorati non esistevano, i legumi erano la bistecca dei poveri e frutta e verdura non mancava mai.

E’ stato comodo e troppo facile distruggere l’economia di micro produzioni contadine di cui nessuno si sarebbe interessato in nome della spesa da carrello.
Oggi ne paghiamo il conto ed ecco che l’economia che ha fatto risorgere l’Italia dalle macerie della guerra, quella contadina sacrificata in nome del progresso, oggi è la chiave per un futuro migliore.
Non un vero ritorno al passato, sarebbe impossibile, ma un passato rivisto in chiave moderna per curarsi e non ammalarsi mangiando.

La frutta dimenticata ritorna così ad avere un seppur piccolo (e ci auguriamo in crescita) numero di produttori e seguaci ben consci di dover trovare la chiave di volta per non essere dei Don Chisciotte qualsiasi.
E pensare che in poco più di un ventennio siamo stati capaci di azzerare un patrimonio unico fatto di: primo paese al mondo a produrre pesche, pere e kiwi; ben oltre 170.000 varietà vegetali commestibili prodottee (la Gran Bretagna seconda ne ha 2100) e oltre 120 varietà di grani quando un colosso come gli Usa ne hanno solo 6.

E di frutti dimenticati da rilanciare se n’è parlato in abbondanza in un interessante confronto fra stampa specializzata, produttori, scienziati e amministratori pochi giorni fa a Londa: paese conosciuto per la celebre e ormai introvabile pesca regina.

La regina appunto tardiva settembrina a cui il paese mugellano ha da sempre dedicato la sua festa che insieme alla cotogna che si coltivava dalle parti dell’odierna via di Villamagna a Firenze rimangono tracce, insieme a tantissime altre varietà solo nei dipinti di Bartolomeo Bimbi testimone con le sue tele di come la frutta e le sue mille varietà fossero invece conosciute e rispettate sulle tavole rinascimentali.

Peccato che fra i tantissimi (sempre più) colleghi che vantano specializzazione in enogastronomia sulle rive del lago di Londa fossimo solo una manciata.
Peccato che la buona e sana divulgazione che si può fare non abbia appeal. Peccato non aver compreso la richiesta di sostegno lanciata da un’amministrazione lungimirante che tanto sta facendo in termini di sostegno e formazione per riprendere in chiave moderna una produzione che determina un economia; peccato per non sapere e non poter raccontare ai consumatori che ci mangiamo (quando la mangiamo) frutta costruita in laboratorio con il solo scopo di essere adatta alla grande distribuzione anche se deve stare venti giorni in frigorifero e col gusto pari a zero.

Peccato non sapere e non poter raccontare che il chilometro zero non è solo una bella parola da usare per riempirsi la bocca, non capire come costruire insieme una filiera, delle corrette etichettature, come sviluppare piante naturalmente resistenti ai parassiti, perché non chiedere agli chef-divi perché la frutta non esiste nei loro menù, etc…

Chi ci rimette è il consumatore perché al poutpourri del tutto si cucina a tutte le ore in tv si può rispondere solo con informazione corretta e coraggiosa. Ma forse è il coraggio che manca a questo paese per rifiorire.[:en]Pesca-Regina-Londadi Nadia Fondelli – Ormai è assodato. Lo sanno pure i muri – anche se lo dicono sottovoce per non disturbare la cassaforte dei monopolisti della nostra salute – l’alimentazione base del presente e del futuro è nella verdura e nella frutta.

Da sempre lo dice la nostra cara e vecchia dieta mediterranea ma troppo spesso lo dimentichiamo nella rincorsa a modelli e stili di vita che danneggiano la salute, ma sono tanto comodi.
La legge della comunicazione del resto insegna che la massificazione piace e che parlare di buone regole è argomento fastidioso.

Così è stato per molti anni, gli anni della plastica, del preconfezionato e del fast salvo scoprire poi, quando i buoi sono già scappati dalla stalla, che il rovescio della medaglia c’era. Addio salute.

Facendo due conti si è compreso allora che il costo sociale di cattive politiche è un boomerang assassino. Spendere oggi uno per risparmiare e nutrire i popoli di veleni corrisponde a spendere domani dieci per garantire cure a vite a popoli avvelenati.

Malattie cardiovascolari, metaboliche e neurodegenerative erano sconosciute pochi decenni fa quando sulla tavola la carne scarseggiava, i prodotti lavorati non esistevano, i legumi erano la bistecca dei poveri e frutta e verdura non mancava mai.

E’ stato comodo e troppo facile distruggere l’economia di micro produzioni contadine di cui nessuno si sarebbe interessato in nome della spesa da carrello.
Oggi ne paghiamo il conto ed ecco che l’economia che ha fatto risorgere l’Italia dalle macerie della guerra, quella contadina sacrificata in nome del progresso, oggi è la chiave per un futuro migliore.
Non un vero ritorno al passato, sarebbe impossibile, ma un passato rivisto in chiave moderna per curarsi e non ammalarsi mangiando.

La frutta dimenticata ritorna così ad avere un seppur piccolo (e ci auguriamo in crescita) numero di produttori e seguaci ben consci di dover trovare la chiave di volta per non essere dei Don Chisciotte qualsiasi.
E pensare che in poco più di un ventennio siamo stati capaci di azzerare un patrimonio unico fatto di: primo paese al mondo a produrre pesche, pere e kiwi; ben oltre 170.000 varietà vegetali commestibili prodottee (la Gran Bretagna seconda ne ha 2100) e oltre 120 varietà di grani quando un colosso come gli Usa ne hanno solo 6.

E di frutti dimenticati da rilanciare se n’è parlato in abbondanza in un interessante confronto fra stampa specializzata, produttori, scienziati e amministratori pochi giorni fa a Londa: paese conosciuto per la celebre e ormai introvabile pesca regina.

La regina appunto tardiva settembrina a cui il paese mugellano ha da sempre dedicato la sua festa che insieme alla cotogna che si coltivava dalle parti dell’odierna via di Villamagna a Firenze rimangono tracce, insieme a tantissime altre varietà solo nei dipinti di Bartolomeo Bimbi testimone con le sue tele di come la frutta e le sue mille varietà fossero invece conosciute e rispettate sulle tavole rinascimentali.

Peccato che fra i tantissimi (sempre più) colleghi che vantano specializzazione in enogastronomia sulle rive del lago di Londa fossimo solo una manciata.
Peccato che la buona e sana divulgazione che si può fare non abbia appeal. Peccato non aver compreso la richiesta di sostegno lanciata da un’amministrazione lungimirante che tanto sta facendo in termini di sostegno e formazione per riprendere in chiave moderna una produzione che determina un economia; peccato per non sapere e non poter raccontare ai consumatori che ci mangiamo (quando la mangiamo) frutta costruita in laboratorio con il solo scopo di essere adatta alla grande distribuzione anche se deve stare venti giorni in frigorifero e col gusto pari a zero.

Peccato non sapere e non poter raccontare che il chilometro zero non è solo una bella parola da usare per riempirsi la bocca, non capire come costruire insieme una filiera, delle corrette etichettature, come sviluppare piante naturalmente resistenti ai parassiti, perché non chiedere agli chef-divi perché la frutta non esiste nei loro menù, etc…

Chi ci rimette è il consumatore perché al poutpourri del tutto si cucina a tutte le ore in tv si può rispondere solo con informazione corretta e coraggiosa. Ma forse è il coraggio che manca a questo paese per rifiorire.[:]

Pistoia: Il piccolo gioiello della Svizzera Pesciatina

[:it]slideshow1di Nadia Fondelli – Piccolo, quasi senza buccia, dal sapore unico. Solo 70 quintali l’anno di produzione strappata ai soli 4/5 km. coltivabili lungo il letto del fiume ne fanno un prodotto di nicchia e di eccellenza.
Il terreno particolarissimo di coltivazione totalmente privo di calcare fa la differenza.
22 produttori in tutto di cui 13 riuniti nell’Associazione di Ghiareto che, nata nel 1999 in breve (2002) ha ottenuto dall’Europa il marchio europeo di indicazione geografica tipica.

E più tipico del fagiolo di Sorana non c’è nè.
Ne abbiamo parlato col presidente dell’associazione Roberto Dingacci che, orgogliosamente racconta come la leggenda tramandi che anche Leonardo da Vinci fosse ghiotto di questo fagiolo e che certamente lo mangiava con gran gusto Giacomo Puccini che ha avuto anche l’opportunità di assaggiare l’antico rosso di fatto sparito di produzione negli anni ’50 del Novecento.
In realtà fra i venti produttori 50 kg. l’anno di rosso anche oggi ne vengono fuori, ma è altrettanto vero che chi c’è l’ha se lo tiene.

Il fagiolo di Sorana, salvato da un oblio ed estinzione certa è oggi uno di quei prodotti di nicchia cercati quasi fosse una gemma preziosa da quando è sbarcato in televisione ed alcuni celebrati chef lo hanno provato e lo propongono nei loro menù.

Ma alla crescita di fama non può ovviamente seguire una crescita di produzione perchè a Sorana, dove già si trova difficoltà a mettersi d’accordo in 22 produttori per antiche questioni di famiglia, non si pensa certo di “forzare” la produzione per compiacere tutti. E’ così dev’essere viene da aggiungere. Nel cibo il “di moda” non esiste!

Per cui, per chi veramente vuole scoprire un’eccellenza di nicchia il consiglio è di salire dalle parti di Sorana e scoprire così anche un territorio bellissimo, pieno di verde e di acque poco conosciuto e nascosto fra le valli Forfora e Torbola che per anni ha dato ricchezza alla zona con i suoi mulini e le sue cartiere.
Oggi è meta ideale per glli amanti della natura, dell’archeologia industriale e della scoperta dei borghi visibili e nascosti. Ma anche per i cultori della buona tavola.

La cosidetta Svizzera Pesciatina è tutta da svelare con i suoi boschi di castagni e querce e le sue dieci “castella”, lillipuzziani borghi medievali che spuntano sulle pendici di altrettanti colli.

La metà perfetta è il ristorante da Carla dove in un ambiente accogliente, caldo e rustico potrete provare le genuinità della zona e su tutti: re fagiolo. Da provare rigorosamente al fiasco.
Loc. Ponte di Castelvecchio
51017 Pescia (PT) – Italia
www.ristorantedacarla.it[:en]slideshow1di Nadia Fondelli – Piccolo, quasi senza buccia, dal sapore unico. Solo 70 quintali l’anno di produzione strappata ai soli 4/5 km. coltivabili lungo il letto del fiume ne fanno un prodotto di nicchia e di eccellenza.
Il terreno particolarissimo di coltivazione totalmente privo di calcare fa la differenza.
22 produttori in tutto di cui 13 riuniti nell’Associazione di Ghiareto che, nata nel 1999 in breve (2002) ha ottenuto dall’Europa il marchio europeo di indicazione geografica tipica.

E più tipico del fagiolo di Sorana non c’è nè.
Ne abbiamo parlato col presidente dell’associazione Roberto Dingacci che, orgogliosamente racconta come la leggenda tramandi che anche Leonardo da Vinci fosse ghiotto di questo fagiolo e che certamente lo mangiava con gran gusto Giacomo Puccini che ha avuto anche l’opportunità di assaggiare l’antico rosso di fatto sparito di produzione negli anni ’50 del Novecento.
In realtà fra i venti produttori 50 kg. l’anno di rosso anche oggi ne vengono fuori, ma è altrettanto vero che chi c’è l’ha se lo tiene.

Il fagiolo di Sorana, salvato da un oblio ed estinzione certa è oggi uno di quei prodotti di nicchia cercati quasi fosse una gemma preziosa da quando è sbarcato in televisione ed alcuni celebrati chef lo hanno provato e lo propongono nei loro menù.

Ma alla crescita di fama non può ovviamente seguire una crescita di produzione perchè a Sorana, dove già si trova difficoltà a mettersi d’accordo in 22 produttori per antiche questioni di famiglia, non si pensa certo di “forzare” la produzione per compiacere tutti. E’ così dev’essere viene da aggiungere. Nel cibo il “di moda” non esiste!

Per cui, per chi veramente vuole scoprire un’eccellenza di nicchia il consiglio è di salire dalle parti di Sorana e scoprire così anche un territorio bellissimo, pieno di verde e di acque poco conosciuto e nascosto fra le valli Forfora e Torbola che per anni ha dato ricchezza alla zona con i suoi mulini e le sue cartiere.
Oggi è meta ideale per glli amanti della natura, dell’archeologia industriale e della scoperta dei borghi visibili e nascosti. Ma anche per i cultori della buona tavola.

La cosidetta Svizzera Pesciatina è tutta da svelare con i suoi boschi di castagni e querce e le sue dieci “castella”, lillipuzziani borghi medievali che spuntano sulle pendici di altrettanti colli.

La metà perfetta è il ristorante da Carla dove in un ambiente accogliente, caldo e rustico potrete provare le genuinità della zona e su tutti: re fagiolo. Da provare rigorosamente al fiasco.
Loc. Ponte di Castelvecchio
51017 Pescia (PT) – Italia
www.ristorantedacarla.it[:]

Prato: dal “maiale etrusco” nasce la mortadella di Montemurlo

[:it]20160421172548985di redazione – Nasce la mortadella, prodotta con le “parti nobili” del maiale tipico toscano, allevato fin dagli etruschi, ma fino a qualche anno fa considerato estinto. Un prodotto di nicchia, realizzato dall’artigiano delle mortadelle di Bologna, Silvio Scapin

Anche Montemurlo ha la sua mortadella, un prodotto di nicchia e di altissima qualità, realizzato con le parti nobili del suino nero di macchiaiola maremmana, allevato dall’azienda agricola “Il Poggiolino Montemurlo”.
Una vera e propria novità per l’azienda di Cicignano che va ad arricchire il paniere di salumi tutti “made in Montemurlo”.
Il salume è stato presentato alla presenza del sindaco di Montemurlo, Mauro Lorenzini, che ha detto:
« I due terzi del territorio di Montemurlo si estendono nella parte collinare ed è un piacere sapere che ci sono imprenditori come la famiglia Tissi, che investono nella cura dell’ambiente e nella promozione dei prodotti locali. Questo è il nostro valore aggiunto ed è così che si promuove il turismo e l’agricoltura sostenibile».

Inoltre, il sindaco ha sottolineato il valore della giovane imprenditoria agricola al femminile, ben rappresentata da Giulia Tissi, poco più che trent’anni, e figlia del fondatore dell’azienda “Il Poggiolino”, che all’amore del padre per un allevamento di qualità ha aggiunto il marketing e a breve aprirà uno spaccio dove poter acquistare i vari salumi della macchiaiola maremmana.

L’ultima arrivata in casa “Poggiolino” nasce dalla passione del proprietario, Bruno Tissi, per la regina delle tavole bolognesi: la mortadella.
Così alcuni mesi fa Tissi fa contattare il migliore artigiano delle mortadelle bolognesi, Silvio Scapin, da oltre quarant’anni patron di “Artigianquality” nel centro di Bologna e presidio slow food, e gli propone una nuova sfida: realizzare una mortadella dalle carni di macchiaiola maremmana.

È così che Montemurlo e Bologna si mettono insieme per dare vita ad un prodotto straordinario per gusto e qualità. Un prodotto di nicchia che per ora l’azienda agricola “Il Poggiolino” proporrà soltanto in alcuni periodi dell’anno ed in produzione limitata.

«Le carni di macchiaiola maremmana costituiscono un unicum, non esiste qualcosa di simile altrove, tanto che ho accettato volentieri la sfida che mi ha proposto Bruno Tissi.- spiega il “maestro della mortadella” Silvio Scapin– Il metodo di allevamento allo stato semi-brado, l’alimentazione con prodotti del sottobosco, frutta, verdura e i cereali prodotti dall’azienda agricola stessa migliorano il benessere dell’animale, rendendo le carni naturalmente saporite, così come lo erano un tempo e il risultato è una mortadella di grande consistenza, aroma e qualità».
Nulla a che vedere con le produzioni industriali. Per produrre la mortadella di macchiaiola maremmana Scapin ha utilizzato le parti più nobili dell’animale: prosciutto, parte della pancetta, gola e spalla denervata. Banditi gli additivi chimici e il pepe, mentre il sapore, oltre che dalla consistenza delle carni, viene dalle spezie naturali utilizzate e dosate con maestria: macis, cardamomo, coriandolo e noce moscata. Una produzione “lenta” che dura in media quattro o cinque giorni. La carne viene macinata e mescolata con le spezie selezionate. Sono, poi, aggiunti i lardelli di gola e il sale marino. Il composto viene insaccato in budelli naturali, legati a mano e poi fatti cuocere lentamente (cottura per assunzione) in particolari stufe per 24-28 ore. Così la carne ha tutto il tempo di far “esplodere” i propri aromi e profumi. Una mortadella tutta naturale, che, tra le altre qualità, ha anche quella di essere ben digeribile.

Le carni del “Poggiolino”, infatti, sono naturalmente buone: i suini neri sono allevati in un ambiente incontaminato all’interno dell’area protetta del Monteferrato ed hanno un dna al 100% toscano. Allevati fin dagli etruschi, i maiali di macchiaiola maremmana fino ad alcuni anni fa era considerati estinti. Il recupero della razza è iniziato nel 2005 con il ritrovamento di un nucleo di riproduttori alle pendici dell’ Amiata ed proseguito grazie al sostegno del progetto europeo Vagal con il patrocinio della Provincia di Grosseto ed alla collaborazione dell’Università di Firenze ed è così rincominciato l’allevato di questa razza antica. L’allevamento, la riproduzione, la produzione di carne e la trasformazione dei prodotti stagionati della “Macchiaiola maremmana” sono regolamentati da un rigoroso disciplinare per garantirne l’eccellenza, la qualità e la salubrità. In Toscana sono solo due le aziende che producono la macchiaiola maremmana, “Il Poggiolino Montemurlo” e un’azienda di Seggiano. Le carni di macchiaiola maremmana hanno una prevalenza di acidi grassi insaturi e di acidi grassi delle famiglie Omega 3 e omega 6.

Maggiori informazioni si possono trovare anche sul sito dell’azienda www.ilpoggiolino.net[:en]20160421172548985di redazione – Nasce la mortadella, prodotta con le “parti nobili” del maiale tipico toscano, allevato fin dagli etruschi, ma fino a qualche anno fa considerato estinto. Un prodotto di nicchia, realizzato dall’artigiano delle mortadelle di Bologna, Silvio Scapin

Anche Montemurlo ha la sua mortadella, un prodotto di nicchia e di altissima qualità, realizzato con le parti nobili del suino nero di macchiaiola maremmana, allevato dall’azienda agricola “Il Poggiolino Montemurlo”.
Una vera e propria novità per l’azienda di Cicignano che va ad arricchire il paniere di salumi tutti “made in Montemurlo”.
Il salume è stato presentato alla presenza del sindaco di Montemurlo, Mauro Lorenzini, che ha detto:
« I due terzi del territorio di Montemurlo si estendono nella parte collinare ed è un piacere sapere che ci sono imprenditori come la famiglia Tissi, che investono nella cura dell’ambiente e nella promozione dei prodotti locali. Questo è il nostro valore aggiunto ed è così che si promuove il turismo e l’agricoltura sostenibile».

Inoltre, il sindaco ha sottolineato il valore della giovane imprenditoria agricola al femminile, ben rappresentata da Giulia Tissi, poco più che trent’anni, e figlia del fondatore dell’azienda “Il Poggiolino”, che all’amore del padre per un allevamento di qualità ha aggiunto il marketing e a breve aprirà uno spaccio dove poter acquistare i vari salumi della macchiaiola maremmana.

L’ultima arrivata in casa “Poggiolino” nasce dalla passione del proprietario, Bruno Tissi, per la regina delle tavole bolognesi: la mortadella.
Così alcuni mesi fa Tissi fa contattare il migliore artigiano delle mortadelle bolognesi, Silvio Scapin, da oltre quarant’anni patron di “Artigianquality” nel centro di Bologna e presidio slow food, e gli propone una nuova sfida: realizzare una mortadella dalle carni di macchiaiola maremmana.

È così che Montemurlo e Bologna si mettono insieme per dare vita ad un prodotto straordinario per gusto e qualità. Un prodotto di nicchia che per ora l’azienda agricola “Il Poggiolino” proporrà soltanto in alcuni periodi dell’anno ed in produzione limitata.

«Le carni di macchiaiola maremmana costituiscono un unicum, non esiste qualcosa di simile altrove, tanto che ho accettato volentieri la sfida che mi ha proposto Bruno Tissi.- spiega il “maestro della mortadella” Silvio Scapin– Il metodo di allevamento allo stato semi-brado, l’alimentazione con prodotti del sottobosco, frutta, verdura e i cereali prodotti dall’azienda agricola stessa migliorano il benessere dell’animale, rendendo le carni naturalmente saporite, così come lo erano un tempo e il risultato è una mortadella di grande consistenza, aroma e qualità».
Nulla a che vedere con le produzioni industriali. Per produrre la mortadella di macchiaiola maremmana Scapin ha utilizzato le parti più nobili dell’animale: prosciutto, parte della pancetta, gola e spalla denervata. Banditi gli additivi chimici e il pepe, mentre il sapore, oltre che dalla consistenza delle carni, viene dalle spezie naturali utilizzate e dosate con maestria: macis, cardamomo, coriandolo e noce moscata. Una produzione “lenta” che dura in media quattro o cinque giorni. La carne viene macinata e mescolata con le spezie selezionate. Sono, poi, aggiunti i lardelli di gola e il sale marino. Il composto viene insaccato in budelli naturali, legati a mano e poi fatti cuocere lentamente (cottura per assunzione) in particolari stufe per 24-28 ore. Così la carne ha tutto il tempo di far “esplodere” i propri aromi e profumi. Una mortadella tutta naturale, che, tra le altre qualità, ha anche quella di essere ben digeribile.

Le carni del “Poggiolino”, infatti, sono naturalmente buone: i suini neri sono allevati in un ambiente incontaminato all’interno dell’area protetta del Monteferrato ed hanno un dna al 100% toscano. Allevati fin dagli etruschi, i maiali di macchiaiola maremmana fino ad alcuni anni fa era considerati estinti. Il recupero della razza è iniziato nel 2005 con il ritrovamento di un nucleo di riproduttori alle pendici dell’ Amiata ed proseguito grazie al sostegno del progetto europeo Vagal con il patrocinio della Provincia di Grosseto ed alla collaborazione dell’Università di Firenze ed è così rincominciato l’allevato di questa razza antica. L’allevamento, la riproduzione, la produzione di carne e la trasformazione dei prodotti stagionati della “Macchiaiola maremmana” sono regolamentati da un rigoroso disciplinare per garantirne l’eccellenza, la qualità e la salubrità. In Toscana sono solo due le aziende che producono la macchiaiola maremmana, “Il Poggiolino Montemurlo” e un’azienda di Seggiano. Le carni di macchiaiola maremmana hanno una prevalenza di acidi grassi insaturi e di acidi grassi delle famiglie Omega 3 e omega 6.

Maggiori informazioni si possono trovare anche sul sito dell’azienda www.ilpoggiolino.net[:]

Vini del sud: oltre il Sangiovese

[:it]137959630411668di Nadia Fondelli – Una sera di mezza settimana é perfetta per scoprire cose nuove. Così è stato per me quando, con parecchia curiosità sono andata in pieno cento di Firenze in una libreria-caffè-teatro alla scoperta di vini del sud, tutti da scoprire a chi ha un palato molto avvezzo al Sangiovese.

Radici del Sud grande contenitore del food e wine che si celebra ad inizio estate a Bari ha deciso di andare in tournee e portare al nord in questo caso tre autoctoni meridionali: il Negroamaro, il Gaglioppo e l’Aglianico.

Se il primo dei tre è il più noto perché espressione di quel Salento dalle spiagge belle da sempre ma (chissà perché) frequentate da poco, molto incuriosivano gli altri due vitigni.
L’Aglianico vino minerale nella sua eccezione lucana, ma ben diverso fra le cime dell’avellinese e il Gaglioppo espressione di quella Calabria laboriosa che non fugge, ma vive, lotta e produce.

Nicola Campanile, che di Radici del Sud è inventore e mattatore in 11 anni si è dato parecchio da fare per far sapere che i vini si sanno fare bene anche a longitudini meno frequentate.
Nei giorni baresi la vetrina offre infatti molto: dal contatto diretto delle aziende coi buyers, a un concorso alla cieca (finalmente) fino a specifici press tour per la stampa soprattutto estera.

Questo forse l’unico errore; dare troppo per scontato che i colleghi italiani conoscano bene questi vini e le loro storie e tradizioni quando invece, basta guardare nelle enoteche e ristoranti del sud dove sono davvero pochi i degustatori, anche delle grandi guide presenti all’assaggio.

Tornando alla serata fiorentina, dopo un introduzione con dei rosé che servivano per rompere il ghiaccio, ma che invece hanno solo fatto capire come i vini abbiamo bisogno del loro tempo la full immersion ha regalato nuovi saperi.

Il Negramaro, in espressioni diverse di annate (2010 e 2011) e di produzioni (bio e convenzionale) ha piacevolmente colpito con le sue note decise di pepe nero, paglia, cuoio e cannella anche se la struttura in alcuni casi era perfettibile; può risultare fastidiosa l’aggressione alcolica e tanninica al palato alto e alla gola.

Il Gaglioppo molto personale e selvaggio come le selve che profumano di salmastro del cuore di Calabria da cui proviene, ci è parso più leggero nella corposità anche se deciso e personale nel colore; tannini decisi, aromi di caramello, mou e liquirizia.

L’Aglianico infine ha emozionatolo la scrivente, appassionata di vini minerali nella sua espressione lucana dove il Vulture e il suo antico vulcano sprigionano in bocca note superbe di terra e carmello che avvolgono pienamente la bocca con tannini corposi e decisi.
Meno personale, ma più divertente nel gioco degli aromi la versione campana.

In conclusione una serata bella e interessante che fa capire come saper fare vini è arte antica e che il territorio gioca una parte fondamentale nel risultato.
Piacerebbe forse sentire più blend, capire cosa potrebbe uscirne con percentuali di vitigni internazionali, ma la sensazione è che ai sudisti il vino piace così: nudo e puro. A costo di non (com)piacere.

 [:en]137959630411668di Nadia Fondelli – Una sera di mezza settimana é perfetta per scoprire cose nuove. Così è stato per me quando, con parecchia curiosità sono andata in pieno cento di Firenze in una libreria-caffè-teatro alla scoperta di vini del sud, tutti da scoprire a chi ha un palato molto avvezzo al Sangiovese.

Radici del Sud grande contenitore del food e wine che si celebra ad inizio estate a Bari ha deciso di andare in tournee e portare al nord in questo caso tre autoctoni meridionali: il Negroamaro, il Gaglioppo e l’Aglianico.

Se il primo dei tre è il più noto perché espressione di quel Salento dalle spiagge belle da sempre ma (chissà perché) frequentate da poco, molto incuriosivano gli altri due vitigni.
L’Aglianico vino minerale nella sua eccezione lucana, ma ben diverso fra le cime dell’avellinese e il Gaglioppo espressione di quella Calabria laboriosa che non fugge, ma vive, lotta e produce.

Nicola Campanile, che di Radici del Sud è inventore e mattatore in 11 anni si è dato parecchio da fare per far sapere che i vini si sanno fare bene anche a longitudini meno frequentate.
Nei giorni baresi la vetrina offre infatti molto: dal contatto diretto delle aziende coi buyers, a un concorso alla cieca (finalmente) fino a specifici press tour per la stampa soprattutto estera.

Questo forse l’unico errore; dare troppo per scontato che i colleghi italiani conoscano bene questi vini e le loro storie e tradizioni quando invece, basta guardare nelle enoteche e ristoranti del sud dove sono davvero pochi i degustatori, anche delle grandi guide presenti all’assaggio.

Tornando alla serata fiorentina, dopo un introduzione con dei rosé che servivano per rompere il ghiaccio, ma che invece hanno solo fatto capire come i vini abbiamo bisogno del loro tempo la full immersion ha regalato nuovi saperi.

Il Negramaro, in espressioni diverse di annate (2010 e 2011) e di produzioni (bio e convenzionale) ha piacevolmente colpito con le sue note decise di pepe nero, paglia, cuoio e cannella anche se la struttura in alcuni casi era perfettibile; può risultare fastidiosa l’aggressione alcolica e tanninica al palato alto e alla gola.

Il Gaglioppo molto personale e selvaggio come le selve che profumano di salmastro del cuore di Calabria da cui proviene, ci è parso più leggero nella corposità anche se deciso e personale nel colore; tannini decisi, aromi di caramello, mou e liquirizia.

L’Aglianico infine ha emozionatolo la scrivente, appassionata di vini minerali nella sua espressione lucana dove il Vulture e il suo antico vulcano sprigionano in bocca note superbe di terra e carmello che avvolgono pienamente la bocca con tannini corposi e decisi.
Meno personale, ma più divertente nel gioco degli aromi la versione campana.

In conclusione una serata bella e interessante che fa capire come saper fare vini è arte antica e che il territorio gioca una parte fondamentale nel risultato.
Piacerebbe forse sentire più blend, capire cosa potrebbe uscirne con percentuali di vitigni internazionali, ma la sensazione è che ai sudisti il vino piace così: nudo e puro. A costo di non (com)piacere.

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